Serà possibile el sur

Serà possibile

Come se fossi con le mani bagnate sotto il tavolo a seguire i piedi di altri che vanno e vengono in questa stanza, e magari quando è notte, in canottiera sul davanzale, senza sapere perché, senza contare i giorni di siccità al sud.

Rimanere come in nessun luogo, come a casa mia, essere sud e nient’altro, oppure al rovescio essere l’altro che ti guarda come sei, come siamo, come potremmo essere sotto il filo dei panni stesi.

Il vento alita sulla strada, attraverso i pali del telegrafo ed è il vento adatto per tornare al sud, tornare indietro nelle piastrelle azzurre del bagno, indietro, in una stanza dove sudare, mentre il ragazzo lava le scale e il tuo braccio attorno alla vita risolve il pensiero di dovermi svegliare.

Indietro su quella strada che sapemmo camminare solo a piedi: prendevamo il nostro vento, perdevamo il nostro tempo, fuggivamo nel futuro di domani giocando alle cinque pietre sotto il muro.

Il ferro del progresso agitava il nostro allora, nel lampo di un televisore con tre canali dai colori sbiaditi che ti parlano di elezioni a senso unico, “tenendo de explicarme che la vida es algo mas que un simple plato de comida” cantava Susanna Rinaldi, ed il mio vestito era nero ma pensava in bianco.

Il volo quando è basso, meridiano segue la traccia del suo errore, spreme la terra da frutto e aspetta il buono delle stagioni in cui la vita, inevitabilmente, diventa epifania. Spinge contro i vetri, tira alla sorte degli anni che hai consumato ed ha il suo ritmo e la sua musicalità.

Il ritmo è scostante acerbo e maturo. Gravido e volatile.

La musicalità è impalpabile.

Così sei passato nella tua storia a bocca aperta, nella sincope della scuola che ti ha fatto conoscere l’insidia delle stagioni. Hai attraversato più mondi, preso di sobbalzo dall’illusione elettrica del potere, della conoscenza, della comprensione di te stesso e della piazza. Ma il ferro correva parallelo ai tuoi giorni e la sosta del tuo senso di giustizia era altrove, una stazione non riconosciuta, una preghiera altra. Allora hai votato per l’amicizia ma, nel germe del domani anelavi all’amore. I tuoi anni erano affreschi vividi appesi alle pareti e la polemos della piazza mangiava tutti i giorni a casa tua. Hai appreso l’etica del bisogno da uno dei tre canali fluorescenti ed hai iniziato a giudicare e, soprattutto a consumare. Hai persino carezzato l’illusione privata ma verticale di condurre il ferro e ti sei inebriato, hai preso coraggio. Gli studi ti avevano condotto alla soglia del mondo, ma tu sospettavi, con ragione, perché avevi la sensazione opaca che ci fossero più mondi possibili. Hai viaggiato da viaggiatore, hai diradato l’amicizia, hai toccato l’altrove della città con le braccia curve, hai bevuto di gusto e poi hai viaggiato ancora, vivevi al ritmo dei cinque quarti con la storia a portata di mano e il sud dei tuoi sotto il cuscino, allevavi le anguille nella vasca da bagno, il grasso possibile della vita.

Ma il ferro correva imperterrito e ti ha aperto le strade della comunicazione. Allora sei diventato rintracciabile ed hai avuto un numero, un codice, un nuovo bisogno. La memoria si è diradata, ti è rimasta appiccicata addosso solo l’ineludibilità della trasmissione della carne, e la reperibilità del tuo ritmo, del tre quarti da cui sei nato, il giorno dopo le proteste nelle piazze, la fantasia al potere, le stragi sulla scacchiera, ma giusto un giorno prima dell’avvento dell’infinito privato che abita le case di oggi.

Lo schermo si è assottigliato e i mondi sono diventati il racconto di se stessi, l’iracondo virtuale.

Ci hai preso gusto, hai iniziato a consumare i pasti in piedi e a casa tua eri l’unico ospite a pranzo, brulicavi nella raccolta differenziata. Ti sei finalmente dato al lavoro e nei hai passate, bruciate di serate, ricordi? Sognavi il sette ottavi ma giravi in quattro quarti. E nel sogno dei tuoi giorni il ferro consumava il suo carbone fossile, all’ombra del tuo sud, bruciando, esattamente come te, due o tre repubbliche: “desde chico ya tenìa en el mirar, esta loca fantasia de sognar” canta il tango bastardo, ti sei irrigidito, mentre fuori la piazza falliva il suo bilancio, l’epopea del dejà vù: hanno venduto anche la spiaggia sotto casa di tua nonna.

Ti sei inguaiato di vita e ti sei fatto male, ma non poco. Ti è venuta in sogno la musicalità, il suo ritmo era in dieci, come un biancospino, una malattia da rintracciare, un nugolo di passioni sopite. Non hai cambiato vita, potrai conoscere altri mondi ma non altre vite, lo sai bene, è il peso del tuo amore. Allora, come altri, hai preso a bestemmiare e a frequentare l’etica e l’etichetta. La fortuna è rimasta appesa agli angoli delle strade, nelle luci basse del corallo, nella rosa sfacciata, in una lingua ibrida come il ladino. Hai acquisito una certa dose di religiosità, spesso confezionata a casa tua con materiali di risulta, ma comunque presentabile, una specie di gioco delle supplenze. Ti sei espanso e non è vero che non ci stai con la testa. La tua farmacia è il sud. L’oriente del tuo occidente. L’attesa, l’incidente. L’ufficio del niente. La resa del presente. L’appalto che ti attende. Un gesto che ti pende. Lo scarto di chi mente. La lingua che si svende.

La porta è aperta. Mi vedo e mi riconosco ancora e sono del sud, come se fossi sole, l’odore dell’origano, una fetta di melone.

Sarà possibile questo sud, colato tra le palme delle mani, come un dirimpettaio che si è messo a fumare, le grida di chi passa sotto, occhi da sud, temporali estivi che corrono su strade larghe, pioggia di ruggine che spiove in casa, fuori di casa.

Mi sono svegliato nel mare, mattino del sud.